Sostenibilità sociale d’impresa: la legge 162/2021 sulla parità di genere
–Introduzione: la sostenibilità sociale
La sostenibilità sociale è uno dei tre pilastri (insieme ad economia ed ambiente) su cui poggia il concetto di Sviluppo sostenibile, il nuovo paradigma multidimensionale dello sviluppo umano che va oltre il mero concetto di crescita economica e introduce il diritto per tutti a una vita dignitosa, la giustizia sociale fra generazioni, generi, popoli e la partecipazione attiva alla vita delle comunità locali. Il quadro di riferimento per lo sviluppo sostenibile globale è rappresentato dall’Agenda ONU 2030, composta da 17 obiettivi principali (SDGs), 169 target e 232 indicatori, di cui 60 appositamente elaborati per definire e valutare il concetto di sostenibilità sociale intesa come il benessere dei cittadini a livello internazionale di oggi anche delle generazioni future. Alla parità di genere è legato il goal 5 che mira a ottenere le pari opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze (compresa l’abolizione dei matrimoni forzati e precoci) e l’uguaglianza dei diritti a tutti i livelli di partecipazione.
Con l’approvazione della Direttiva n. 2022/2464 riguardante la reportistica societaria di sostenibilità (Corporate Sustainability Reporting Directive=CSRD), nel quadro della strategia europea del Green Deal e della roadmap per la Sustainable Finance da parte dell’EBA (European Banking Authority), oltre 50.000 imprese europee saranno obbligate a pubblicare annualmente un bilancio di sostenibilità in cui rendicontare il proprio impatto sull’ambiente e la società, e relative azioni migliorative, dimostrando di impegnarsi concretamente nell’integrare gli obiettivi ESG (Environmental, Social e Governance) all’interno delle strategie aziendali. La domanda crescente di accountability sui temi sociali sta portando a profondi cambiamenti nel mercato del lavoro e nelle politiche aziendali, accelerati tra l’altro dalla pandemia da Covid 19 e dal rapido imporsi delle tecnologie digitali. La diffusione di modalità di lavoro da remoto, la riflessione in corso sui valori sottostanti la cultura aziendale, la ricerca di maggiore soddisfazione professionale hanno fatto sì che negli ultimi tempi venisse dato ampio risalto agli aspetti umani del lavoro e alle sue possibilità di produrre non solo profitto ma anche di generare “senso” e impatto sociale positivo.
L’approccio alla sostenibilità, in effetti, sta portando le imprese ad adottare un modello di business più integrato e impegnato verso i propri stakeholder, con l’obiettivo di creare valore per se stessi e per le comunità di riferimento coinvolte lungo tutto il processo. La Commissione europea, nei policy briefing di fine 2022, ha sottolineato che “… l’Europa ha gradualmente intensificato il suo impegno per la trasformazione industriale, soprattutto lavorando alla transizione verso la cosiddetta industria 4.0, un paradigma tecnologico, incentrato sull’emergere di oggetti cyber-fisici, che promette una maggiore efficienza grazie alla connettività digitale e all’intelligenza artificiale. Tuttavia, tale paradigma, così come attualmente concepito, non è adatto allo scopo in un contesto di crisi climatica e di emergenza planetaria, né affronta le profonde tensioni sociali.” Industria 4.0, pertanto, si è evoluta in Industria 5.0 basata su tre elementi: resilienza, sostenibilità e approccio umano-centrico, attraverso cui prestare maggiore attenzione agli aspetti sociali e umani, garantendo che l’uso della tecnologia non violi i diritti fondamentali dei lavoratori, come il diritto alla privacy, all’autonomia e alla dignità umana.
Questa trasformazione culturale sta mettendo in discussione alcuni dei capisaldi su cui poggia il modello imprenditoriale dominante, come ad esempio la necessità di svolgere in presenza le attività, l’ufficio come luogo fisico centrale, la separazione tra orario di lavoro e quello di vita, l’idea stessa della produttività, di solito vincolata al tempo piuttosto che agli obiettivi. Concretamente la sostenibilità sociale può essere attuata in azienda:
-sul versante interno, in riferimento alla modalità di gestione delle persone, ad esempio adottando criteri di selezione del personale secondo politiche volte a promuovere inclusione, diversità e pari opportunità anche a livello di remunerazione; attraverso modelli lavorativi flessibili e aperti alla conciliazione vita-lavoro; con percorsi di formazione e di carriera che valorizzino i talenti e le peculiarità individuali; con un sistema di welfare e di benefit aziendali; agevolando il dialogo e la relazione con il management e un maggiore coinvolgimento nel processo decisionale;
-sul versante esterno, contribuendo a migliorare i rapporti con la comunità in cui l’azienda è inserita, riducendo gli eventuali impatti negativi sul territorio, assicurandosi che tutti i processi della supply chain avvengano nel pieno rispetto dei diritti umani dei lavoratori e dei cittadini del territorio in cui questi processi hanno luogo. L’attenzione alla supply chain ha portato l’UE a introdurre nuovi obblighi in materia, come la Direttiva sulla Due Diligence (Corporate Sustainability Due Diligence Directive), approvata in forma semplificata dal Consiglio europeo il 15 marzo e in attesa di essere votata dall’Europarlamento entro aprile.
In un periodo in cui le aziende hanno difficoltà a trovare le competenze necessarie sul mercato del lavoro (si pensi a The Great Resignation, l’ondata di dimissioni volontarie degli ultimi anni, per motivi legati principalmente a insoddisfazione professionale e mancata corrispondenza tra valori personali e quelli aziendali) la sostenibilità sociale è divenuta una leva fondamentale sia per attrarre che per trattenere i talenti di cui un’azienda ha bisogno e di costruire le competenze necessarie per evolvere secondo le esigenze e le opportunità di mercato.
-La legge 162/2021 e la certificazione della parità di genere
Con la Legge 5 novembre 2021, n. 162 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/11/18/21G00175/sg), sono state apportate significative modifiche al cosiddetto Codice delle Pari Opportunità (D.Lgs. n. 198/2006), inserendo un sistema di certificazione e conseguente premialità per le aziende virtuose e inasprendo l’apparato di sanzioni e controlli.
Le modifiche prevedono:
-che venga presentata in Parlamento, con cadenza biennale, una relazione contenente i risultati del monitoraggio sull’applicazione della legislazione in materia di pari opportunità da parte della Consigliera nazionale di parità e non più dal Ministro del lavoro (art. 1);
– di ampliare le fattispecie della discriminazione diretta ed indiretta, anche a tutela dei/delle candidati/e in fase di selezione del personale, e di specificare la nozione di discriminazione in qualsiasi modifica dell’organizzazione, delle condizioni e dei tempi di lavoro che sia motivata dallo stato di gravidanza, di maternità o paternità, dal sesso, dall’età anagrafica o dalle esigenze di cura personale o familiare e che ponga o possa porre il lavoratore/la lavoratrice in posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori e che possa limitare le opportunità di partecipazione alla vita aziendale e l’accesso ai meccanismi di avanzamento nella carriera (art. 2);
-la redazione, con cadenza biennale, per le aziende pubbliche e private con oltre 50 dipendenti di un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione, dei guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. Tale rapporto dovrà essere trasmesso in modalità esclusivamente telematica, attraverso la compilazione di un modello pubblicato nel sito internet istituzionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dovrà essere inoltrato alle rappresentanze sindacali aziendali (art. 3). Qualora l’inottemperanza all’obbligo di tramettere il rapporto si protragga oltre 12 mesi, è disposta la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda. All’Ispettorato nazionale del lavoro è dato il compito di verificare la veridicità dei rapporti, venendo sanzionate la mendacia o l’incompletezza del rapporto con una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 Euro.
La novità assoluta riguarda l’introduzione della Certificazione della parità di genere e del relativo sistema premiale. La Certificazione ha il compito di attestare le politiche e le misure concrete adottate dalle aziende per ridurre il divario di genere in relazione all’opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere, e alla tutela della maternità. Per le aziende in possesso della Certificazione di parità viene introdotto un sistema premiale di parità, consistente in un incentivo sotto forma di esonero contributivo determinato in una misura non superiore all’1% e nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda, oltre che un punteggio premiale per la valutazione, da parte delle autorità titolari di fondi europei, nazionali e regionali, delle proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti. L’art. 2 del Decreto Legge 29 maggio 2023 n. 57 recante “Misure urgenti per gli enti territoriali, nonchè per garantire la tempestiva attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e per il settore energetico” (GURI Serie Generale n.124 del 29-05-2023) stabilisce infatti: «Al fine di promuovere la parità di genere, le stazioni appaltanti prevedono nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti, il maggior punteggio da attribuire alle imprese per l’adozione di politiche tese al raggiungimento della parità di genere comprovata dal possesso della certificazione della parità di genere di cui all’articolo 46-bis del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198.»
Per ottenere la certificazione della parità di genere le imprese dovranno rispettare i parametri minimi definiti dalla norma UNI/PdR 125:2022 relativa alle “Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator – indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni”. Prevede la misura, la rendicontazione e la valutazione dei dati relativi al genere nelle organizzazioni, con l’obiettivo di colmare i gap attualmente esistenti nonché “…incorporare il nuovo paradigma relativo alla parità di genere nel DNA delle organizzazioni, dimostrando di aver prodotto un cambiamento sostenibile e durevole nel tempo.” La UNI/PdR 125 individua sei aree di valutazione: cultura e strategia; governance; processi HR; opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda; equità remunerativa per genere; tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro. Ogni area è contraddistinta da un peso percentuale che contribuisce alla misurazione del livello attuale dell’organizzazione e rispetto al quale è misurato il miglioramento nel tempo:
Cultura e strategia (15%);
Governance (15%);
Processi HR (10%);
Opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda (20%);
Equità remunerativa per genere (20%);
Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro (20%).
Per ciascuna area di valutazione la prassi UNI identifica degli specifici KPI con i quali misurare il grado di maturità dell’organizzazione attraverso un monitoraggio annuale e una verifica ogni due anni del miglioramento ottenuto grazie agli interventi messi in atto o delle correzioni attivate. Il sistema si applica a partire dalle micro-organizzazioni (1-9 dipendenti) fino alle multinazionali, con applicazione dei KPI in modo proporzionale e graduale rispetto al profilo dimensionale dell’organizzazione.
In un articolo del 2023 pubblicato da Percorsi di Secondo Welfare (https://www.secondowelfare.it/worklife-community/la-certificazione-di-genere-per-le-imprese-tutto-oro-quel-che-luccica/), ci si chiede se c’è davvero bisogno della certificazione di genere, dal momento che il principio di volontarietà su cui si basa potrebbe depotenziare l’incentivo al cambiamento. La letteratura è comunque concorde nell’evidenziare l’importanza di strumenti di questo tipo in merito alla loro capacità di aumentare la presenza femminile in contesti tradizionalmente maschili (Schramm 2019; Elting 2022). Si tratta delle cosiddette azioni positive che prevedono interventi specifici (come ad esempio le quote di genere) mirati a rimuovere gli ostacoli che impediscono le pari opportunità uomo-donna, accelerare il processo di realizzazione di fatto dell’uguaglianza e combattere le discriminazioni dirette e indirette nei confronti delle donne. Anche le ricerche dimostrano che le aziende più inclusive sono in grado di generare un valore più elevato e sostenibile nel lungo periodo: “…i dati dell’Osservatorio 4Manager (2021) hanno rilevato che nel nostro paese l’equilibrio di genere in azienda potrebbe valere un incremento di circa il 12% del PIL entro il 2050. Questo dato è confermato anche dall’Osservatorio sull’Empowerment Femminile (2022), secondo cui il superamento del divario di genere relativo al tasso di occupazione varrebbe una crescita del PIL del 14% nei paesi aderenti al G20…”
La certificazione di genere, dunque, può rappresentare un primo passo verso la promozione delle pari opportunità tra uomini e donne all’interno del contesto aziendale e potrebbe rafforzare la capacità delle imprese di attrarre talenti femminili, soprattutto se in azienda vengono adottate politiche innovative in termini di welfare aziendale (es. congedi parentali, congedi di paternità ecc), che favoriscano la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per i dipendenti di entrambi i generi.
-Il modello IDEM per la misurazione della parità di genere
Ma come si può ottenere la certificazione creando al contempo un modello di gestione della parità di genere (gender equality management) che consenta davvero di ridurre il gender gap in modo strutturale? IDEM srl (www.idemindthegap.it), start up universitaria creata dalla collaborazione tra docenti, ricercatrici e ricercatori di Fondazione Marco Biagi e JobPricing, nasce in risposta a questa necessità e la declina al livello delle organizzazioni private: misurare la gender equality di un’organizzazione, individuare gli ambiti in cui permane gender gap e diagnosticarne le cause, e conseguentemente abilitare l’organizzazione a impostare politiche e pratiche finalizzate al miglioramento della propria gender equality. L’IDEM Index è un indice capace di misurare la parità di genere nelle organizzazioni grazie ad un approccio multidisciplinare, scientifico e pratico sviluppato da IDEM sulla base dello stato dell’arte scientifico e metodologico nazionale e internazionale. Il modello analizza quattro dimensioni organizzative della gender equality: la carriera (13 variabili), ovvero l’accessibilità (in condizioni paritarie) e l’accesso effettivo delle donne alle posizioni direttive e manageriali; la retribuzione (7 variabili), cioè la gestione dei sistemi retributivi secondo criteri di equità e merito (effettivi); l’organizzazione del lavoro (16 variabili), intesa come modalità di assegnazione delle responsabilità, di coordinamento delle attività e di gestione dei tempi che non penalizzano le donne; la cultura organizzativa (8 variabili), cioè la presenza di un insieme di assunti fondamentali, di valori e di prassi che tutelano e promuovono la gender equality. Nicole Boccardini, Responsabile Operations di IDEM Mind the gap, sottolinea come una delle principali dimensioni della gender equality, la carriera, richieda un ripensamento dei percorsi di crescita tradizionali e la creazione di modelli organizzativi aziendali più inclusivi, che possano far emergere un modello diverso di leadership, basato sulla responsabilità individuale e collettiva al raggiungimento degli obiettivi, in grado non solo di conciliare lavoro e vita privata ma anche di creare un ambiente in grado di valorizzare l’unicità del contributo individuale.
-La cultura come veicolo per promuovere la parità di genere in azienda
La sostenibilità all’interno delle aziende è prima di tutto una questione di cultura, che per rimuovere fenomeni discriminatori come il divario retributivo di genere o la segregazione in ambito di carriera dovrà essere sempre più inclusiva.
Monia Dardi, Organizational Consultant Diversity Equity & Inclusion in Mylia (www.mylia.com) ci spiega che “..per diffondere una cultura improntata alla gender equality nelle organizzazioni è fondamentale, implementare un programma formativo e di sviluppo disegnato specificamente sulla realtà aziendale; la riduzione del gap di genere, il diversity mindset e la valorizzazione del multipotenziale di ogni persona sono obiettivi prioritari che una realtà aziendale deve raggiungere se vuole creare veramente un ambiente di benessere e di psychological safety ..”.
A proposito di formazione digitale e pari opportunità, SheTech (www.shetechitaly.org) è un ente no profit che ha l’obiettivo di portare la parità di genere nei settori digital e tech in Italia, attraverso attività di networking, formazione e sensibilizzazione. Insieme a una community di oltre 1200 associat* (persone che lavorano, studiano o vogliono avvicinarsi ai settori digital e tech), aziende partner e altre realtà attive sul territorio, SheTech lavora per rendere questi contesti sempre più inclusivi. L’obiettivo principale delle attività formative che organizza l’associazione è fornire una formazione costante e continuativa, scevra di pregiudizi, che consenta a chiunque, ma in particolar modo alle donne, di apprendere/restare aggiornate sulle tematiche “verticali” indispensabili per far parte del cambiamento tecnologico che stiamo vivendo. D’altra parte anche di lavorare sulle cosiddette “soft skills” per imparare a valorizzare se stesse e a superare gli stereotipi interiorizzati che spesso impediscono la piena realizzazione delle aspirazioni di carriera nonché l’ascesa alle posizioni apicali.
Il linguaggio, in particolare, è un veicolo potentissimo per la creazione di una cultura aziendale inclusiva. Come dichiarano Elisa Coco e Lucia Jorini di ComunicAttive (www.comunicattive.it), “…il modo in cui usiamo la lingua è la cartina di tornasole di retaggi culturali e forme mentali di cui spesso non siamo neanche consapevoli, che applichiamo in modo automatico. In questo automatismo può capitare di riprodurre dinamiche di potere. Ad esempio, il potere di un genere, quello maschile, di esistere nelle parole, e di essere addirittura considerato neutro e universale. E la contropartita è che il genere femminile e tutte le soggettività LGBTQIA+ rimangono invisibili. Quello che non esiste nella lingua non è spesso neanche pensabile, mentre nominare, dare voce e valore a tutte le persone ne concretizza l’esistenza. Per questo con la nostra agenzia di comunicazione lavoriamo a fianco delle aziende che vogliono riconoscere l’esistenza e il valore di tutte le persone che lavorano all’interno della loro realtà per promuovere un ambiente di lavoro improntato sulla convivenza delle differenze. Accompagniamo le aziende in percorsi formativi interni sul linguaggio inclusivo e sulla scelta delle immagini con cui comunicano, affiancandole anche nella realizzazione di processi partecipati per la costruzione di linee guida e policy della comunicazione, fino alla costruzione di campagne di sensibilizzazione su temi di parità, equità e diversity.”